C’è una verità che nessuno dice più apertamente, eppure è lì, evidente sotto gli occhi di tutti: le banconote sono l’unico, vero, autentico mezzo di pagamento. Tutto il resto — carte, app, bonifici, wallet digitali — non è denaro, ma una promessa di denaro. Una promessa scritta nel linguaggio delle banche, dei server, dei codici informatici. Una promessa che può essere sospesa, condizionata, ritirata. Le banconote no. Le hai in mano, le passi, le ricevi. Nessuno può bloccarle, nessuno può dire “mi dispiace, il servizio non è disponibile”, nessuno può censurare un tuo acquisto.
Eppure, proprio questo potere delle banconote — il potere dell’immediatezza, della libertà, dell’anonimato — dà fastidio. Fa paura. Lo Stato, negli ultimi vent’anni, ha lavorato con costanza per limitarne l’uso. A colpi di decreti, soglie, sanzioni, ti ha fatto sentire quasi colpevole se paghi in contanti. Come se avessi qualcosa da nascondere. Come se solo i disonesti usassero denaro vero. È un paradosso: quello che una volta era normale, oggi è sospetto.
La scusa, ovviamente, è nobile: combattere il riciclaggio, l’evasione, il malaffare. Ma chi conosce davvero il mondo del crimine finanziario sa che il denaro contante è solo la superficie. I grandi traffici si muovono altrove, tra società offshore, trust, criptovalute opache, transazioni frazionate e bonifici che attraversano continenti in un clic. Fermare il contante non ferma il crimine. Serve solo a controllare meglio le persone normali.
E così succede una cosa strana, inquietante se ci pensi: lo Stato ti costringe, di fatto, a depositare i tuoi soldi in banca. Ti spinge a usare il POS, la carta, l’app. Ma quella stessa banca non ti dà alcuna garanzia piena. Ti dice che i tuoi soldi sono lì, ma se un giorno va tutto in tilt, se il sistema cade, se c’è una crisi bancaria, non è detto che tu li riveda. Sì, esiste un fondo che promette di rimborsare fino a 100.000 euro per depositante, ma è un fondo privato, con risorse finite, e in ogni caso non è lo Stato che si espone, come invece ha fatto quando ha salvato le banche, non i cittadini.
E allora ti ritrovi in un corto circuito: non puoi più pagare liberamente in contanti, ma sei obbligato a usare una rete di pagamento che non controlli, che non ti protegge, che può decidere in ogni momento di dirti “no”; “Non puoi prelevare oggi.”; “Questo bonifico è sospetto, lo blocchiamo.”; “Il tuo conto è stato chiuso per motivi di compliance." E tu? Tu non puoi fare niente. Ti resta solo un PDF, un numero su uno schermo, un estratto conto.
Il contante, invece, è reale. Non ha bisogno di internet, di autorizzazioni, di aggiornamenti software. Non può essere hackerato, non ha commissioni. È lo spazio di libertà residua, quello che sfugge al tracciamento, quello che ti appartiene veramente. Ti permette di essere autonomo, invisibile se vuoi, umano. Non sei un ID digitale, un wallet, un QR code. Sei una persona con in mano il proprio valore.
Eppure, in nome della modernità, della sicurezza, della trasparenza, stiamo lasciando che ci venga tolto. Un pezzo alla volta. Prima il tetto a 3.000 euro, poi 2.000, ora 1.000. Domani? Solo digitale. Solo banche. Solo tracciabilità. Solo controlli.
Ma la verità è che nessuna carta, nessuna app, nessun conto potrà mai sostituire ciò che rappresenta una banconota: la fiducia diretta tra due persone che scambiano valore, senza chiedere permesso a nessuno.
Non c’è niente di più rivoluzionario — e più umano — del contante. E ogni volta che rinunciamo ad usarlo, un piccolo pezzo della nostra libertà economica, personale e democratica si spegne.
E poi c’è un’altra verità scomoda, che raramente viene detta ad alta voce: ogni volta che usi la moneta elettronica, stai pagando un pedaggio invisibile. E quel pedaggio, centesimo dopo centesimo, va sempre nella stessa direzione: verso l’intermediario. La banca, il circuito, il gestore del POS, la fintech di turno.
È una forma elegante — e per questo più subdola — di spostamento della ricchezza. Una involuzione del capitale, dove il denaro non scorre più liberamente tra consumatore e commerciante, tra cittadino e cittadino, ma deve sempre transitare da un terzo soggetto che lo scuce, lo gestisce, lo tassa.
Ogni transazione elettronica è un’occasione di guadagno per chi sta nel mezzo. Una commissione sull’acquisto, una percentuale sulla vendita, un canone mensile per il POS, una fee sul bonifico, un balzello sull’incasso. Il denaro, anziché fluire diretto, viene eroso a piccole dosi. Non te ne accorgi subito, ma se sommi, mese dopo mese, è una forma sistematica di drenaggio.
Chi paga? Sempre l’ultimo della fila: il consumatore, il piccolo esercente, il risparmiatore.
Chi guadagna? Chi si è posizionato in mezzo: gli intermediari, i sistemi di pagamento, le banche, i colossi dell’economia digitale.
E non finisce qui. L’evoluzione tecnologica, che avrebbe dovuto abbattere i costi, ha invece moltiplicato le occasioni di guadagno per chi controlla le reti. Più usi il digitale, più vieni profilato. Più sei tracciato, più i tuoi dati diventano merce. Ogni pagamento racconta qualcosa di te. E anche questo ha un valore. Ma quel valore non torna mai a te: è un’altra forma di capitale che si concentra in alto, lontano, nelle mani di pochi.
Il contante, invece, non erode nulla. Passa di mano in mano senza lasciare briciole per strada. È intero, immediato, sovrano. Non serve un server, non serve una banca, non serve un’interfaccia. Solo due persone, un accordo, un gesto.
E allora la verità è che non si sta promuovendo la trasparenza, ma il profitto privato, sistemico, di pochi a scapito della moltitudine. Ogni restrizione al contante è una manovra elegante per forzarti dentro una gabbia tracciata, tassata e guadagnata da altri. Ti dicono che è più sicuro, più moderno, più civile. Ma è solo più redditizio — per loro. E tu resti lì, con un numero su uno schermo che può essere bloccato, prelevato, congelato, e che ogni volta che si muove… si riduce un po’. Ma almeno, ti dicono, sei “in regola”. Con chi, però? E a quale prezzo?