Parlano la stessa lingua, ma non dicono le stesse cose

Parlano la stessa lingua, ma non dicono le stesse cose

Come riconoscere il confine tra l’osservazione economica e l’azione finanziaria: il paradosso dei sinonimi apparenti.

Quante volte sentiamo dire: “I mercati hanno reagito bene alle notizie economiche” oppure “La politica economica ha rassicurato la finanza”? Eppure, dietro queste espressioni apparentemente sensate si cela una profonda confusione semantica.
È come dire che un meteorologo e un pilota parlano lo stesso linguaggio solo perché entrambi osservano il cielo.

In realtà, economia e finanza non solo non parlano la stessa lingua, ma non usano neanche lo stesso alfabeto mentale.
L’economia è lo studio del mondo così com’è: misura, analizza, spiega. La finanza invece si muove nel campo delle decisioni, delle aspettative, delle strategie.
L’economista ti dice come va il mondo. Il finanziere decide come muoversi nel mondo che verrà.
Sembra una differenza di poco conto. Ma è abissale.

L’economista è un osservatore. Un misuratore. Il finanziere anticipa.
Guarda i dati della produzione, dell’occupazione, dei consumi. È interessato a cosa succede nei sistemi, nei mercati, nelle famiglie. Fa domande del tipo: “Cosa succede al PIL se aumentano le tasse?”, “Come reagisce l’inflazione alla politica monetaria?”

Il finanziere, invece, è un attore. Non vuole sapere come vanno le cose, ma dove conviene investire, dove è più probabile ottenere un rendimento, come proteggersi da un rischio.
È l’uomo della previsione, della probabilità, della velocità. Guarda l’economia solo per usarla come mappa, ma viaggia con la bussola in mano, pronta a cambiare direzione al primo segnale.

Questa differenza genera comportamenti opposti.
Davanti a una crisi economica: l’economista la studia, ne analizza le cause, cerca di suggerire correttivi; il finanziere si muove prima che arrivi, sposta capitali, vende, copre, scommette.

Un caso illuminante è Tesla, l’azienda automobilistica fondata da Elon Musk. Per anni, i conti economici di Tesla erano in perdita: la produzione costava troppo, le vendite non coprivano i costi, il bilancio era in rosso.

Eppure, in quegli stessi anni, il valore finanziario di Tesla in Borsa schizzava verso l’alto. Perché? Perché i finanziari non guardavano il presente. Guardavano una narrazione, una visione del futuro.
Credevano in Elon Musk. Scommettevano sul fatto che Tesla avrebbe rivoluzionato l’industria dell’auto, che avrebbe dominato il mercato elettrico, che avrebbe venduto software, non solo automobili.

Così Tesla ha superato in valore colossi come Ford, GM, Toyota. Ma non perché i numeri lo giustificassero.
Perché la finanza vive di storie credibili, non di bilanci equilibrati.

Questo può sembrare affascinante, persino visionario. Ma è anche pericoloso. Perché quando la finanza costruisce castelli sul futuro, dimentica spesso che prima o poi serve anche una solida base nel presente.

C’è anche un’altra distinzione, più ideologica che tecnica.

L’economia è, per sua natura, pubblica. Parla di interessi collettivi: lavoro, disuguaglianza, crescita, inflazione, redistribuzione. Riguarda tutti.

La finanza è privata. È il regno dell’interesse individuale, dell’ottimizzazione del rendimento. Non si chiede “fa bene alla società?”, ma “mi conviene?”.
Questo non è un male in sé. Ma se la finanza prende il sopravvento sull’economia, accade che le decisioni politiche vengano guidate dai desideri degli investitori, non dai bisogni dei cittadini.

E così vediamo Stati che fanno riforme non per il popolo, ma per i mercati. Che tagliano la sanità non perché sia inefficiente, ma per “mandare un segnale positivo alle agenzie di rating”.
Una democrazia che si giustifica davanti agli investitori, invece che davanti agli elettori, è una democrazia in pericolo.

La finanza, per sua natura, si fonda sull’asimmetria dell’informazione. Chi sa prima, vince. Chi ha accesso ai dati, agli algoritmi, ai mercati, può giocare con regole diverse rispetto al piccolo risparmiatore o al lavoratore medio.

L’economia, invece, si basa su un’asimmetria del potere: tra chi produce e chi consuma, tra chi ha capitale e chi ha solo forza lavoro.

Capire questa doppia asimmetria è fondamentale per ogni cittadino. Perché chi ignora le regole del gioco economico è destinato a subirne le conseguenze. E chi non conosce le dinamiche finanziarie viene escluso dai benefici, ma non dai rischi.

In definitiva, l’economia e la finanza sono due strumenti diversi. L’una serve a capire il mondo, l’altra a muoversi dentro di esso. Confonderle è come confondere la cartina stradale con l’auto che guida. Una serve a orientarsi. L’altra può andare dritta… o schiantarsi.

Per questo è fondamentale insegnare a distinguerea scuola, per formare cittadini consapevoli; nei media, per evitare che la retorica dei mercati soffochi quella del lavoro; nella politica, per non trasformare ogni decisione in una reazione al giudizio degli investitori.

Solo quando riconosciamo chi osserva e chi agisce, chi misura e chi specula, chi lavora per tutti e chi lavora per sé, possiamo immaginare un equilibrio tra economia e finanza.

Un equilibrio sano, in cui la finanza smetta di dettare legge, e torni ad essere uno strumento – potente, sì – ma al servizio di una società giusta, produttiva e viva.

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